| | | OFFLINE | Post: 58.416 Post: 15.011 | Registrato il: 23/09/2009 | Età: 26 | |
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21/09/2010 11:55 | |
Ecco a voi una bella analòisi di Diego Nargiso
DOVE ANDIAMO?
Dieci anni fra inferno e purgatorio. E all’orizzonte, solo nubi cariche di altri acquazzoni, che non ci fanno più ammirare il fascino del cielo “azzurro”
Ma quale occasione buttata? Pensare che l’Italia sia per l’undicesimo anno consecutivo costretta a giocare la serie B (nel 2004 anche l’inferno della serie C) della Coppa Davis per colpa di un doppio sfortunato vuol dire nascondersi dietro un dito, e non guardare in faccia la realtà. Una realtà che mi rende inerme, attonito, perché le sconfitte dell’Italtennis maschile denotano anno dopo anno una mancanza di progettualità e di un’univoca volontà di riportare la nostra squadra dove è stata per tutta la sua storia, e cioè fra le migliori del mondo. I risultati non vengono da esperimenti, o da espedienti, ma vanno voluti con determinazione e dedizione, perché la maglia azzurra è – o dovrebbe essere – un motivo di orgoglio per chi la indossa e per chi ne è il custode istituzionale.
Il doppio come emblema del caos. Contro una nazione che poteva schierare il numero 5 del ranking mondiale sapevamo che era fondamentale aggiudicarsi la prova di coppia per sperare nel ritorno nel World Group I. Per mesi il capitano Barazzutti avrà pensato all’importanza del tandem da schierare. Ma allora perché Bolelli e Starace durante la stagione hanno giocato 8 volte insieme (i tre impegni di Coppa Davis, tre turni agli Internazionali d’Italia e due turni nell’Atp di Umago), con la miseria di un solo match disputato sul veloce (nel secondo round contro l’Olanda)?
La struttura della Coppa Davis dà un’enorme importanza al doppio. Vincere il sabato mette pressione agli avversari, costretti ad imporsi in entrambi i singoli della domenica, e può addirittura chiudere definitivamente i giochi. Un progetto ben chiaro implica inevitabelmente la scelta di una (1!) coppia. Si deve parlare con i due prescelti, e gli si deve far capire che per trovare l’affiatamento in ottica Davis devono giocare, giocare, giocare. Non una manciata di match all’anno, ma tanti, tantissimi incontri. Altrimenti non si crea sinergia, non si comprendono i movimenti del compagno, nè tantomeno le tattiche da intraprendere. Abbiamo portato in Svezia Daniele Bracciali. E che l’abbiamo portato a fare? Non certo a fare la riserva per il singolare, dato che l’aretino manca dal tennis che conta da parecchio tempo. L’abbiamo portato perché – presumo, ma non posso giurarlo – può giocare il doppio con Potito Starace, con il quale ha fatto coppia in quest’ultimo scampolo di stagione. Ma fosse solo un problema di doppi, allora staremmo “alla grande”.
Un passato recente, fra screzi e grandi vittorie Da dieci anni manchiamo nel World Group I. E cosa ha fatto la Federazione in questi dieci anni per riportare la squadra in serie A? Quello che ha fatto mi rimane oscuro, ma secondo la mia opinione quello che sicuramente non ha fatto è creare una coesione d’intenti. Nella mia lunga esperienza con la nazionale abbiamo avuto dei rapporti non sempre idilliaci, e a volte si è arrivati allo scontro. Un anno (1994) io e Canè fummo messi da parte dall’allora capitano Adriano Panatta per motivi disciplinari, avendo avuto incomprensioni all’interno del gruppo. Ma ci siamo chiariti, per il bene della nazionale, e perché avevamo bisogno l’uno dell’altro. Io morivo per vestire la maglia azzurra e quando sentivo l’inno ero pronto a tutto per dare il massimo. Giocavo per il mio Paese, quale gratificazione maggiore? E così era per tutti i miei compagni. Le due semifinali del 1996 e 1997 e la finale del 1998 (con Bertolucci in pachina) sono fra i ricordi più intensi della mia carriera, e se Andrea non si fosse fatto male nell’incontro con Norman, saremmo diventati Campioni del Mondo. Ma noi lavoravamo insieme tutto l’anno, ci preparavamo per la Davis, sacrificando anche tanto della nostra carriera da professionisti. Quando Panatta ebbe l’intuizione di farmi giocare il doppio con Gaudenzi, in molti lo presero per pazzo. Noi invece lo seguimmo ( e la fiducia ci venne data in seguito anche da Paolo Bertolucci), e cominciammo dalle qualificazioni dei tornei minori, perché Andrea non aveva classifica nella specialità. Match dopo match trovammo la nostra sintonia, togliendoci soddisfazioni come la vittoria a Casablanca, molte finali Atp e soprattutto tanti trionfi con la maglia azzurra. Facemmo dei sacrifici, e nei primi tempi avemmo qualche screzio, ma le vittorie ci unirono, e ne valse davvero la pena.
Fit, padre padrone che non gratifica i suoi figli. Quello che vedo oggi dall’esterno, è invece un gruppo tutt’altro che proiettato verso uno scopo comune. Ogni anno c’è un tennista che abbandona, un altro che viene cacciato, un altro che ritorna. E la Federazione non riesce ad avere un rapporto sano e di reciproco rispetto con gli atleti. Sia dal punto di vista umano, sia dal punto di vista professionale. E quando mi riferisco alla professionalità, mi riferisco anche e soprattutto al lato economico. Non prendiamoci in giro, la diaria non è un incentivo. Per come viene inteso il tennis oggi, o si dice ai giocatori di lavorare insieme per l’obbiettivo, magari anche gratis, ma garantendogli un ritorno a risultato centrato. O si dà ai tennisti un corrispettivo di quello che guadagnerebbero se andassero in giro per tornei, pattuendo eventuali bonus per il ritorno in Serie A. In entrambi i casi, i nostri ragazzi si sentirebbero incentivati e responsabilizzati, e non usati per uno scopo che – ripeto – dopo dieci anni non riesco ancora a capire.
Capitano allo sbaraglio. Se la Fit ha le sue colpe, non può certo dirsi immune da critiche Corrado Barazzutti. Dal 2001 ha cambiato la squadra continuamente, non trovando mai nè giocatori su cui fare totale affidamento (Luzzi, Volandri e Starace le uniche eccezioni) nè una coesione di gruppo. Lo stesso capitano però, ha dalla sua una fantastica storia con le ragazze di Fed Cup, con le quali ha trovato la giusta sinergia e due titoli mondiali. Ma quando si ha in squadra una top ten come Francesca Schiavone, una top 20 come Flavia Pennetta, una giocatrice di talento come Roberta Vinci e una lottatrice come Sara Errani – ultima arrivata ma subito accettata dal resto del gruppo – è lineare che si lotti ogni anno per la Coppa. Cosa sta facendo invece Corrado Barazzutti per il team maschile? Ogni anno si crea un problema, i giocatori vengono minacciati e allontanati, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Poi ci lamentiamo se andiamo in Svezia e non facciamo risultato. Per quanto riguarda la trasferta di Lidkoping, ho già parlato dell’importanza del doppio – questione però più ampia di una singola partita – ma c’è un’altro interrogativo che mi ha lasciato perplesso. Soderling è un tennista di un’altra categoria – non ci piove – ma è anche uno “sparatutto”, che può accusare cali di prestazione se il suo potente braccio va fuorigiri. Perché allora opporgli nel singolare decisivo un tennista come Simone, che ha caratteristiche simili allo scandinavo – e che quest’anno non ha mai giocato un tre su cinque – invece di Potito Starace, che con il suo tennis molto più vario avrebbe potuto dargli qualche fastidio in più?
Il futuro. Quando le cose vanno male, di solito la medicina che si prende per prima è un nuovo allenatore. Barazzutti sta facendo molto bene con le ragazze, ma nella Davis siamo impantanati, e all’Italtennis maschile serve qualcuno che si dedichi alla causa 365 giorni l’anno. Se ci dovesse essere un cambio – ma non credo – vedo molto bene sulla panchina azzurra sia Renzo Furlan che Gianluca Pozzi. Sono due uomini di campo, hanno costruito la loro brillante carriera con il duro lavoro, e godono del rispetto dei giocatori. Ma il problema del nostro tennis di squadra non è solo l’allenatore, ma soprattutto il governo federale, che da un decennio a questa parte ha depauperato il prestigio della maglia azzurra. |