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Decreto dignità: le intenzioni sono sbagliate, i risultati saranno ancora peggio
I tre punti principali del testo: lavoro, delocalizzazione, misure fiscali. I pro e i contro del primo provvedimento del governo Lega-Cinque Stelle. Tra le conseguenze negative potrebbe esserci un calo dell’occupazione e una riduzione degli investimenti al Sud
di Marco Leonardi


Ci siamo. Dopo gli annunci dei giorni scorsi, e qualche rinvio, il governo ha varato il Decreto Dignità.

Il primo vero provvedimento del governo Lega-Cinque stelle non può sfuggire all’esame attento di chi si occupa di politica economica. Per questo, ho voluto offrire al lettore un breve commento del testo, non senza fornire però due avvertenze. La prima: il mio parere è sicuramente di parte perché sono stato consigliere economico del presidente del Consiglio Gentiloni: ma proprio per questo ho il vantaggio di conoscere bene la base di norme su cui si intende intervenire. La seconda: il mio commento riguarda un testo che potrebbe non essere definitivo nonostante sia stato corretto più volte in questi giorni per evitare degli errori davvero imperdonabili.

La prima parte del decreto riguarda le norme sul lavoro, da cui sono state però stralciate le parti politicamente più sensibili relative al contratto dei riders e al ritorno dei voucher. Lo stralcio, in verità, è un fatto positivo. Ma, visti gli annunci, prendiamo atto che il governo, proprio sui due temi più caldi, non abbia saputo prendere una decisione, preferendo rinviare il compito ad altri. Nel caso dei riders al contratto collettivo, nel caso dei voucher al Parlamento.

È stata corretta in extremis quella parte del decreto che avrebbe costretto le agenzie del lavoro somministrato alla chiusura. Alla fine non è stato posto neanche il limite all’utilizzo in sequenza di contratti a termine e somministrati per durate ben superiori ai limiti di legge, in cambio si è ottenuto di alienarsi per sempre le simpatie delle agenzie di somministrazione che svolgono un contributo fondamentale nello sviluppo delle politiche attive. Un capolavoro politico.

Rimangono le restrizioni sui contratti a termine e sulla somministrazione. È giusto porre un limite ai contratti a termine, ma per farlo bisogna seguire un principio altrimenti rischia di venire percepito soltanto un intento punitivo nei confronti delle aziende che usano contratti a termine e delle agenzie di somministrazione. Il principio non può essere che quello affermato nel Jobs Act, e cioè che ogni limite al contratto a termine deve avere l'obiettivo di stabilizzare i lavoratori a tempo indeterminato. I contratti a termine in sé vanno benissimo, il problema sono le aziende che ne approfittano per mantenere precari i lavoratori in maniera indebitamente lunga.

È giusto porre un limite ai contratti a termine, ma per farlo bisogna seguire un principio altrimenti rischia di venire percepito soltanto un intento punitivo nei confronti delle aziende che usano contratti a termine e delle agenzie di somministrazione

Il decreto sostanzialmente interviene su tre punti senza un disegno coerente. Anzi, con una contraddizione evidente.

Primo. Reintroduce le causali per i contratti a termine dopo i primi 12 mesi. Questo film lo abbiamo già visto anni fa e produce soltanto l’esplosione del contenzioso che invece in questi anni è stato ridotto del 80 per cento. Combinato al fatto che i contratti in essere sono soggetti alla riforma, e non esentati come sarebbe normale da un regime di transizione, ciò produrrà un immediato ricorso ai tribunali.

Secondo. Introduce un costo aggiuntivo per ogni rinnovo. Di per sé niente di male aumentare i costi dei contratti a termine, ma se non è finalizzato alle transizioni il rischio è di dissuadere soltanto le assunzioni a termine. Oggi come oggi l’occupazione è ai massimi di sempre, siamo a più di 23 milioni di occupati. Tra sei mesi, con queste nuove norme (semmai entreranno in vigore), ci attendiamo di vedere un calo dell’occupazione.

Terzo. Riduce le durate massime dei contratti a termine da 36 a 24 mesi e contemporaneamente alza il costo di licenziamento dei contratti a tempo indeterminato. Una contraddizione evidente che tradisce la confusione del governo. La riduzione delle durate dei contratti a termine va nella direzione di accelerare le stabilizzazioni in contratti; l’aumento dei costi di licenziamento va nella direzione esattamente opposta. Quale sarà l’effetto complessivo sulla composizione finale tra contratti a termine e indeterminati lo scopriremo solo tra qualche anno. Nel frattempo, per effetto di tutti questi limiti (causali, costi, durate) e della contraddizione di cui sopra, molto probabilmente assisteremo a un’inversione di tendenza sul mercato del lavoro: dopo quattro anni di crescita continua potremmo assistere alla riduzione dell’occupazione. Sarebbe il primo vero risultato del governo del cambiamento.

Per effetto dei limiti ai contratti e dell’aumento dei costi di liceziamento, molto probabilmente assisteremo a un’inversione di tendenza sul mercato del lavoro: dopo quattro anni di crescita continua potremmo assistere alla riduzione dell’occupazione

La seconda parte riguarda le delocalizzazioni. Qui il populismo rischia di fare i danni maggiori. La norma prevede obblighi di localizzazione nel territorio nazionale per una durata di cinque anni per le imprese (italiane e estere) che abbiano ricevuto risorse pubbliche sotto forma di aiuti di Stato per la realizzazione di investimenti produttivi. A una prima lettura, chi si direbbe in disaccordo? Se non fosse che per effetto di questa disposizione, chiunque sottoscriva contratti di sviluppo (quindi in gran parte al Sud) o intenda avvalersi delle risorse messe a disposizione dal ministero dello Sviluppo economico, per stabilire/innovare attività industriali nel nostro Paese perderebbe autonomia organizzativa per i successivi 5 anni, pena la restituzione da due a quattro volte gli incentivi ricevuti.

È stata corretta in extremis la previsione che rendeva la norma efficace anche dentro la Ue, perché ovviamente sarebbe stata incompatibile con il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e sarebbe stata subito impugnata. Tralasciamo il fatto che alcune regole sulla restituzione degli incentivi in caso di delocalizzazione totale (come se nel caso Embraco per intenderci) c’erano già e che quindi di nuove regole non si sentiva il bisogno. Invece, interroghiamoci sugli effetti reali di questa misura: ad esempio, è giusto sanzionare chi delocalizza anche solo un pezzettino di attività con l’obiettivo di conquistare un mercato straniero? È giusto punire un’azienda italiana del Nord che decide di mettere un impianto al Sud e poi riorganizza un pezzettino minuscolo di attività, spostandolo di nuovo al Nord? In queste cose ci vuole misura. Una legge così netta potrebbe dissuadere molti investimenti, esteri e non. Quanto dovrà essere mai cospicuo un incentivo, affinché un’impresa decida di avvalersene sapendo che dovrà rinunciare alla propria libertà organizzativa o incamminarsi lungo un faticoso percorso di contenziosi?

Un norma così avrà due conseguenze: chi ha già fatto patti di sviluppo farà ricorso, chi non li ha ancora fatti non li farà, a tutto danno del Mezzogiorno (aspettiamo una reazione del ministro per la Coesione territoriale Barbara Lezzi).

È giusto sanzionare chi delocalizza anche solo un pezzettino di attività con l’obiettivo di conquistare un mercato straniero? È giusto punire un’azienda italiana del Nord che decide di mettere un impianto al Sud e poi riorganizza un pezzettino minuscolo di attività, spostandolo di nuovo al Nord? In queste cose ci vuole misura

La terza parte del Decreto contiene misure fiscali, delle quali la più importante è la cancellazione dello split payment (in forza del quale, la pa trattiene direttamente l’Iva sulla fattura che paga al suo fornitore), ma solo per i professionisti. La mia obiezione, in questo caso, è identitaria e di principio: vogliamo fare una lotta seria all'evasione o no? Bisogna deciderlo. Probabilmente lo split payment e la fatturazione elettronica sono una scocciatura per le imprese, anche se per ragioni e con effetti profondamente diversi. Ma per combattere fattivamente l’evasione fiscale, il migliore alleato è senza ombra di dubbio la tecnologia: mettersi di traverso è un po’ come 30 anni fa mettersi contro l’obbligo dei registratori di cassa.

Invece di eliminare lo split payment bisogna accelerare rimborsi e compensazioni. Stupisce, peraltro, che un governo, la cui principale forza politica guarda al digitale come la via per aumentare la trasparenza e la partecipazione, ostacoli proprio gli strumenti che più consentono di scovare comportamenti illeciti. Cancellare lo split payment per i professionisti, che ormai da un anno lo facevano, è solo un passo indietro nella lotta all’evasione. Ma del resto, e qui invece sottolineo il dato di coerenza, cosa aspettarsi da un governo che prepara il condono?

L’ultima parte, infine, riguarda i giochi. Il principio di vietare la pubblicità è giusto, ma per essere efficace la normativa deve essere europea come quella del tabacco. Ipocrita è poi esentare Lottomatica, il concessionario delle lotterie, dal divieto. Il divieto di pubblicità per Lottomatica avrebbe comportato un minor gettito e la copertura sarebbe arrivata proprio dal taglio delle spese per il fondo sanitario dedicate alla cura della ludopatia. Forse si sono resi conto dell’azzardo (hanno vietato la pubblicità, non il gioco d’azzardo!) e sono tornati indietro. Ma resta il fatto che si fanno “figli e figliastri”, quindi non credo che eviteranno i ricorsi delle aziende private.

L’obiettivo del governo dovrebbe essere quello di ridurre il gioco e non solo la pubblicità del gioco: meno male che, al di là del Decreto Dignità, le norme (e l’accordo Stato-Regioni) varate lo scorso anno prevedono già una riduzione del 50% dei punti gioco e del divieto di pubblicità nelle tv generaliste dalle 7 alle 22.
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