DA UBITENNIS:
E' l'8 agosto e Roger Federer compie gli anni. E il silenzio impera.
Con le sconfitte silenziose contro l'ucraino Stakhovsky a Wimbledon, il giovane argentino Delbonis ad Amburgo e il tedesco Brands nella sua Gstaad, Federer ha posto fine alla sua carriera in sordina, senza clamori mediatici. Non ce n'era d'altronde motivo: lo svizzero è stato un comprimario della scena mondiale del suo sport e il suo ritiro è stato pura materia per gli addetti ai lavori, nulla più.
Con la signorilità aplomb che gli appartiene, Federer è stato testimone non invitato di quella che forse un giorno sarà ricordata come la più grande era che il tennis abbia mai avuto: i due fuoriclasse cannibali, Rafael Nadal e Novak Djokovic, hanno portato la tirannia agonistica a livelli mai raggiunti in precedenza, dominando il tennis mondiale. Nadal, 14 Slam (di cui 4 Wimbledon, lui che a inizio carriera era stato erroneamente indicato come terraiolo puro e invece in grado di vincere tutti i major), e Djokovic, 7, sono da ormai dieci anni le divinità di questo Paradiso Terrestre.
Senza dimenticare Andy Murray, il terzo nobile della generazione 1986-87, capace di vincere 5 Slam, Andy Roddick, re di quattro prove major e ultimo gigante della dinastia americana, e tutti i diamanti minori di questo decennio irripetibile: Mark Philippoussis, capace di vincere in extremis a Wimbledon 2003 il suo primo e unico Slam, Marat Safin e Lleyton Hewitt (tre Slam ciascuno), Marcos Baghdatis (1), Fernando Gonzalez (1), Robin Soderling (1), Juan Martin Del Potro (1).
Federer, che da ragazzino ambiva espressamente al tennis perfetto, si è trovato immerso in un mondo che perfetto lo era già senza che fosse necessaria la sua compartecipazione: Nadal e Djokovic hanno portato il gioco a un mix di tecnica e atletismo greco di tale intoccabilità da non concepire alcun'altra tipologia di gioco. La Perfezione, in quanto tale, è una e solo una. E appartiene a loro. Un tennis comprensibile e ammirabile da tutti eppure così sideralmente lontano dall'essere imitato e assorbito. Non solo: sono riusciti a trasformare il tennis in un evento mediatico globale, a eliminare la patina esoterica per renderlo uno sport di fama e interesse come mai nessuno in precedenza era riuscito a fare.
Mentre lui tale perfezione si è limitato a pensarla, a meditarla, a cercarla, a trovarla solamente in sporadiche partite, in colpi di genio estemporaneo. Una carriera di Streben, che sarebbe potuta essere chissà cosa ma che non è stata perché traditrice di quella Perfezione istituzionalizzata come tale.
Eppure (o forse proprio per questo), nonostante questo decennio d'Oro, qualcosa sembra non tornare, sembra mancare e rendere così incompleto il panorama. Come se tale Olimpo sia estasi monca, fedifraga della concezione della Perfezione in quanto Uno.
E non si riesce a non pensare cosa sarebbe stato il tennis recente se quel ragazzo di 32 anni - a casa a festeggiare con la moglie Mirka, le figliolette Myla Rose e Charlene Riva e i genitori Robert e Lynette - fosse stato in grado di raggiungere ciò che si era prefissato da giovane.
Pensare a quella chimera chiamata perfezione, ancora una volta. Non è mai troppo tardi: forse - chissà - è vero che non ne esiste solo una.